Di me, l’immigrato qualunque.

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AEMORGAN

Se c’è una cosa in grado di scoraggiare l’inizio di un qualsiasi progetto, è la cosiddetta sindrome del foglio bianco.

Come intuibile, è un termine provienente dalla letteratura. Parrebbe infatti che per alcuni scrittori, il trovarsi all’inizio di un capitolo/paragrafo, crei una sorta di blocco inaggirabile che impedisce di produrre contenuti sensati anche per intere settimane.

Visto che scrittore non sono, nel mio caso preferirei pescare nel torbido e parlare di ansia da prestazione. Entrare nel mondo dei blogger, dove tutti sono esperti in qualcosa tranne me, non è esattamente una cosa che mi mette a mio agio.

Parlando di competenze, mettiamo in chiaro una cosa: non sono in grado di inventare alcun tipo di ricetta, non capisco nulla di moda e difficilmente riuscirò mai a produrre seriamente un video-tutorial sul trucco che vi farà fare una fantastica figura a quella serata di gala dove vorreste evitare che tutte le vostre amiche limonino tranne voi. Non è cattiveria, giuro. Ci ho anche provato ma sembra che il fondotinta vada poco d’accordo con la barba.

A questo punto, fossi seduto dall’altra parte del monitor, comincerei a domandarmi cosa stia cercando di vendere. Per farla breve, nient’altro che un punto di vista. Non necessariamente giusto, non necessariamente assoluto, ma almeno aiuta a far numero. Ora che le aspettative sono sufficientemente basse, direi che si può anche provare a cominciare.

Per darmi un tono, potrei dire che le ragioni che mi hanno spinto a Londra quasi due anni or sono sono troppo complesse per essere riassunte…ma fondamentalmente non è vero. E’ una decisione che ho preso piuttosto tardi rispetto alla media, decisi di trasferirmi a ventisei anni.

La situazione in Italia non era una cosa disperata da libro Cuore, non è stata una scelta spinta dagli eventi. Avevo un lavoro moderatamente soddisfacente, una macchina finita di pagare e vivevo in affitto in un bilocale arredato. Giuro, aveva i mobili più pacchiani che vi possano venire in mente, una cosa che non fareste vedere a nessuno neanche in fotografia. Chiunque mi venisse a trovare, spendeva più tempo a ridere dei miei mobili che ad interagire con me. Una cosa decisamente svilente, converrete. Altrettanto svilente sarebbe stato comunque comprare dei mobili per una casa non mia.

Una afosa domenica estiva -in mutande sul divano- una sessione particolarmente intensa di Real Time, mi convinse che era ora di comprare casa, demolirne gran parte delle pareti interne, fare un controsoffitto in cartongesso ed arredarla secondo il gusto dell’uomo moderno.

Scattò la molla, cominciai la ricerca. Trovai la casa che faceva per me, al prezzo che faceva per me. L’agente immobiliare era così compiaciuto del mio buon gusto che sospetto volesse regalarmi dei fiori. Al momento di definire i dettagli finanziari, stese le brochure dei mutui davanti a me, servile come se si trattasse di un tappeto rosso.

“Bene Marco, direi che ci siamo. Il nostro promoter ti ritiene affidabile, quindi quando vuoi possiamo procedere con l’offerta di acquisto. Pagando questa rata per i prossimi trenta anni, e la casa sarà tua.”

Ora, magari è un mio limite, ma l’idea di avere qualcosa che ti ancora per trent’anni non è esattamente un balsamo per il sistema nervoso. Chiamatemi incostante ma non ho neanche mai cominciato un album di figurine dei calciatori, per paura di avere un impegno da portare avanti un anno intero, figuriamoci un mutuo. Scattò la voglia di cambiamento dovuta a quello che gli Inglesi amano chiamare “Willing to get out of your comfort zone” ma che io preferisco riassumere col francesismo “cacarella”.

Dato un occhio alle mete possibili, pareva evidente che l’Inghilterra fosse la più abbordabile, sia per ragioni linguistiche (un inglese mediocre è comunque meglio della tabula rasa che ho per tutti gli altri linguaggi europei) che per opportunità lavorative. Lavoro nel settore informatico, soprattutto Londra ha un numero di offerte spropositato nel settore…pensai che non ero sicuramente il più brillante programmatore su piazza, ma neanche il più infame. Per la legge dei grandi numeri qualcosa avrei pur dovuto ricavare. Entro un paio di mesi avevo già preparato il fagotto, salutati i miei genitori (ovvie lacrime di mamma, che ha ancora qualche problema col cordone ombelicale), ho comprato un biglietto di sola andata ed eccomi qui. L’audacia è stata premiata, da allora il rapporto di odio e amore per questa città e i suoi mille non-sense continua, ogni sei mesi mi riprometto che saranno gli ultimi, ma alla fine sono ancora qui.

Il che ci porta direttamente a noi direi, e a queste righe. Difficilmente riuscirò a fornirvi informazioni diverse da quelle che potete reperire in altre parti di questo sito, peraltro scritte da qualcuno che sa ciò di cui parla. Anche perchè sono dotato di disorganizzazione congenita, prima di venire qui sapevo poco e nulla e l’ho scoperto con stupore man mano che accadeva.

Spero di non rovinare la sorpresa a nessuno, ma mi piace l’idea di avere una opportunità di mettere nero su bianco l’effetto che certe cose hanno avuto su di me, di come fossero inattese ed illogiche, talvolta. Di come la differenza stia nei dettagli, di come un paese a poche centinaia di chilometri da casa possa essere così diverso, figlio dei miscugli che lo rendono unico ed irriconoscibile. Insomma, che effetti possono avere usi e costumi di questa cultura sull’Immigrato Qualunque?