Brexit ai tempi del Coronavirus: a che punto siamo?

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AEMORGAN

Poche certezze, espresse in modo molto ondivago e contraddittorio, nel bel mezzo di una pandemia che sta mettendo in ginocchio il mondo intero; questo è lo scenario attuale, ma su una cosa il governo inglese sembra irremovibile: il Regno Unito uscirà dall’Unione Europea -definitivamente, dopo il periodo transitorio- il 31 dicembre di quest’anno. Come, e con quale impatto per economia e società, non è dato sapere: e comunque, è ancora tutto da vedersi, e vi spieghiamo perché.

La questione è sotto gli occhi di tutti. Nel bel mezzo dello scompiglio creato dal Coronavirus, le trattative per la Brexit si sono arenate e il dibattito pubblico è entrato in stallo. Senza offesa, ma avremmo ben altre gatte da pelare, al momento. A questo, si aggiunge che Michel Barnier, il principale negoziatore dell’UE ha contratto il Covid-19 e ha dovuto fare un passo indietro, mentre David Frost, il suo alter ego inglese, è in quarantena. E sebbene in teoria i rispettivi team potrebbero mandare avanti da sé i negoziati, di fatto non possono per via delle regola di social distancing in essere.

Nel quartier generale europeo, infatti, si tiene soltanto una conferenza giornaliera, e -a dire del Guardian- la produttività di Strasburgo è calata del 75% rispetto alla piena operatività. Il ministro dell’ufficio di gabinetto Michael Gove fa sapere che il governo resta in contatto “con la Commissione Europea per esplorare modi alternativi di continuare le discussioni, sotto l’egida degli scienziati” ma intanto la struttura delle negoziazioni “cambierà probabilmente per riflettere l’attuale situazione” mentre si “esplora flessibilità.”

Non è un segreto che la Brexit stia rendendo molto complicato per il Regno Unito la gestione della pandemia, sia a livello politico che pratico. Entro giugno, Johnson -che attualmente è in terapia intensiva in ospedale per Coronavirus– dovrà decidere formalmente se dilazionare di nuovo il periodo di transizione dell’uscita dalla UE, oppure no.

Se lo facesse, potrebbe importare molto più rapidamente le medicine e le apparecchiature mediche che ora servono come il pane; la fregatura è di natura politica. Rimandare la Brexit di un altro anno significherebbe rimetterci la faccia, dover obbedire ancora alle regole della UE e contribuire pure al budget europeo senza manco avere voce in capitolo. Praticamente una disfatta totale, ed ecco perché al governo insistono che -virus o no- si esce il 31 dicembre. Ed ecco perché le deleghe di Johnson ora le ha Dominic Raab, un Brexiteer dichiarato e sostenitore del Leave sin dalla prima ora.

Detta in modo brutale: per come butta, agli inglesi non converrebbe uscire ora; ma per convenienza politica, Johnson o chi per lui, ci proverà comunque.

In una situazione tanto difficile, in Italia si sono levate le solite critiche: “loro possono perché non stanno più in UE” ripetono alcuni. E per certi versi, hanno pure ragione: se da una parte è vero che il nostro paese non soffrirà di questi problemi, dall’altra non si può dire che ce la passiamo bene. Schiacciati da tecnicismi imperscrutabili come Mes, Bei, Sure, gli italiani invocano aiuti veri, senza condizioni, vale a dire Eurobond; laddove Germania e Olanda non vogliono tirare fuori neppure un centesimo, senza regole ferree.

Mentre questo teatrino indegno si svolge davanti ai nostri occhi, il Regno Unito sfodera il bazooka, un pacchetto finanziario da 350 miliardi di Sterline che consentirà di ricostruire il paese dopo l’emergenza Coronavirus. Una libertà di manovra resa possibile -azzarda qualcuno in Italia- proprio dalla Brexit: niente vincoli di bilancio da rispettare, niente parametro di Maastricht da perseguire.

Il che è vero, ma dimentica un piccolo particolare: il debito pubblico inglese nel 2019 era all’85,2% del PIL, in discesa rispetto all’anno precedente; quello italiano è fuori controllo al 134,8%. Il Regno Unito, molto banalmente, se lo può permettere. L’Italia no.